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16 ottobre 1962 / La crisi dei missili:
Usa e Urss a un passo dalla guerra

di Marco Innocenti

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15 ottobre 2009

La mattina del 16 ottobre 1962, alle nove il presidente John F. Kennedy telefona al fratello Bob e gli chiede di raggiungerlo con urgenza alla Casa Bianca. "Siamo di fronte a un grosso guaio, Mosca sta installando missili e testate atomiche a Cuba". Inizia una prova di forza fra i due giganti e spingerà Est e Ovest sull'orlo della catastrofe nucleare. Per tredici giorni, fino al 28 ottobre, nello Studio Ovale della Casa Bianca, saranno in gioco la vita degli americani, dei russi e del mondo intero.
Missili nel cortile di casa
Il rapporto della Cia è chiaro: Mosca sta installando nel "cortile di casa" americano missili atomici. Le promesse distensive di Kruscev erano da marinaio, in realtà il capo del Cremlino vuole saggiare la resistenza americana. JFK è chiaro: "Non possiamo accettarli". La domanda è: "Come rispondere?". Il Consiglio di guerra è riunito, le opinioni divergono. McNamara è per il blocco di Cuba, Bob Kennedy lo appoggia, i capi di Stato maggiore sollecitano un'azione militare immediata. Viene convocato Gromiko. L'abile ministro degli Esteri sovietico ribalta i ruoli: sono gli Stati Uniti a minacciare Cuba. Europa e America latina si schierano con Washington. Il 20 JFK decide per il blocco: 180 navi sono schierate nei Caraibi per fermare i mercantili sovietici stivati di missili e diretti nell'isola di Castro. La Casa Bianca chiude la stalla, ma i buoi sembrano già scappati.

Il blocco
Il 22 il presidente americano parla alla nazione: "Il blocco è il primo passo ma siamo pronti a un'azione militare, invasione di Cuba compresa". Il 23 invia un messaggio a Kruscev: "Rispettate il blocco". Le navi sovietiche si stanno avvicinando alla barriera delle 500 miglia mentre gli U-2 confermano: nell'isola lavorano alacremente, i bunker, le rampe di lancio e i vettori sono chiari ed evidenti, entro pochi giorni potrebbero essere operativi. Sommergibili sovietici sono entrati nelle acque cubane. Tira un'aria terribile: nessuna della due parti vuole una guerra nucleare per Cuba, ma a volte, a un certo livello di tensione, le armi sparano da sole. Prestigio, orgoglio, sicurezza sono concetti pericolosi. La diplomazia tenta un'impresa forse disperata.

Kennedy-Kruscev-Kennedy
Alle 10,32 del 24 le navi cominciano a fermarsi. Ma la crisi è più viva che mai. I lavori nelle basi continuano a pieno ritmo (solo più tardi si saprà che le testate nucleari erano 20, con 42 missili a medio raggio). JFK fa sul serio. Manda un messaggio inequivocabile a Kruscev e fa abbordare il primo mercantile sospetto. Il 26 Kruscev risponde: ammette che a Cuba ci sono missili, è disposto a rimuovere le basi se gli Usa non attaccano e tolgono il blocco. Forse ci sono le basi per un accordo. Ma il 27 piomba un nuovo messaggio dal Cremlino, più duro: "Noi via da Cuba, voi via dalla Turchia". Sono le 24 ore più difficili della crisi. Dice JFK ai suoi: "I nostri missili in Turchia sono vecchi e da ritirare, ma non possiamo farlo sotto ricatto". Un U-2 viene abbattuto su Cuba. Salgono le pressioni per un attacco. Interviene McNamara: "Esco dalla Casa Bianca ma non so se domani sarò ancora vivo". Il blitz è pronto, potrebbe essere per il 28. JFK prende ancora tempo. Ci vorrebbe un'idea. Ce l'ha Bob, il vero regista della crisi: "Rispondiamo alla prima lettera di Kruscev, quella soft, e ignoriamo l'altra". Così avviene, la Casa Bianca "vede" il bluff del Cremlino e Kruscev, imponendosi ai falchi, accetta il ritiro.

È finita
Si chiudono i 13 giorni della paura. Dirà il segretarrio di Stato Dean Rusk: "Guardammo attraverso la bocca del cannone: i russi indietreggiarono". L'interpretazione è forse semplicistica ma, in quell'ottobre del '62, John e Bob giocarono bene le loro carte. Bastone e carota, con prevalenza del bastone. Da veri professionisti.

15 ottobre 2009
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